Melville Herman
Di ascendenza olandese per parte materna e bostoniana e calvinista per parte paterna, dovette interrompere gli studi a causa del fallimento e della morte del padre. La perdita repentina dell’eden di un’infanzia felice lo segnò precocemente. Terzo di otto figli, dopo vani tentativi di trovare un lavoro stabile, attraversò per la prima volta l’Atlantico come mozzo sulla nave Highlander diretta a Liverpool: il primo di una lunga serie di viaggi che avrebbero fornito il materiale avventuroso ai suoi primi libri e un ricchissimo campionario di metafore alle opere maggiori. Nel 1841, dopo aver peregrinato all’Ovest e al Sud, fece vela per il Pacifico sulla baleniera «Acushnet»: disertore, dopo più di un anno, alle isole Marchesi, visse per quattro mesi tra i Taipi, per ritornare, a New York. Il suo primo romanzo, Taipi (Typee, 1846), che ebbe grande successo come storia di vita vissuta, traccia la mappa dell’illusorio paradiso terrestre di quella prima esperienza del mondo «selvaggio». Incoraggiato a proseguire la narrazione delle sue avventure M. scrisse Omoo (1847): le picaresche esperienze del protagonista e del suo compagno, il dottor Long Ghost, sono ravvivate da una satira sociale assai pungente dell’influenza disgregatrice degli europei, particolarmente dei missionari protestanti, sulle popolazioni primitive. Mardi (1849) segna il passaggio dalla narrativa avventurosa alla sperimentazione allegorica. Redburn (1849) e Giacchetta bianca (White jacket, 1850) tornano al tema marinaresco e autobiografico.
Esaurita la vena delle memorie, si lasciò alle spalle l’ironica visione giovanile per perseguire il tema del viaggio come ricerca: l’incontro con N. Hawthorne, nel 1850, mobilitando in profondità le sue energie fantastiche, lo spinse alla riflessione sul tema shakespeariano del rapporto tra apparenza e realtà, tra idillio e allucinazione, che pervade le opere della maturità artistica.
Nel 1851 uscì Moby Dick, il suo capolavoro: ancora un’opera marina, non più nel filone picaresco e satirico ma in quello grandioso dell’epopea.
Con l’esplosione della maturità artistica di M. era cominciato anche il declino della sua popolarità, fondata più su un equivoco che su un’autentica comprensione del suo mondo fantastico. Il colpo di grazia giunse con la pubblicazione, accolta disastrosamente, di Pierre o delle ambiguità (Pierre or the ambiguities, 1852), romanzo di vita contemporanea, melodrammatico e inverosimile. Così le tre opere alle quali M. intendeva affidare il suo messaggio (Mardi, Moby Dick e Pierre) segnarono la fine della sua breve carriera letteraria. A 33 anni M. poteva considerarsi un fallito, che riusciva a stento a mantenere la famiglia. Dopo anni di inutili tentativi per sistemarsi, ottenne nel 1866 un posto alle dogane di New York, dove restò fino al 1885.
Seguitò a scrivere e a pubblicare ma quasi nell’anonimato: Racconti della veranda (The piazza tales, 1856) contiene pagine sulle isole Galápagos considerate, insieme con Bartleby e con Benito Cereno, fra le più geniali creazioni della sua prosa. L’uomo di fiducia (The confidence man, 1857) è l’ultimo romanzo della grande stagione melvilliana: il demonio vi compare, significativamente, sotto la specie di un contemporaneo venditore di inganni a bordo di un battello fluviale. Da allora, fino alla morte, M. scrisse poesie, ricordi di viaggio, saggi, un lungo poema, Clarel, senza più raggiungere il pubblico. Poco prima di morire scrisse il suo ultimo capolavoro, Billy Budd (Billy Budd, sailor).
M. è il primo dei grandi fondatori della tradizione americana: con N. Hawthorne, R.W. Emerson, H.D. Thoreau, W. Whitman forma quello straordinario gruppo di scrittori che nel decennio del 1850 diedero vita a una nuova letteratura. La varietà delle esperienze, l’acuta percezione delle realtà storiche, la profondità del dramma morale che egli visse, la grandiosità fantastica, la complessità psicologica, la ricchezza epica con cui lo mise in scena, fanno di M. uno dei protagonisti della letteratura moderna.
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